Farsi è darsi

— Dal pensarsi al esserci

La definizione che più di tutte coglie il vissuto dello stare al mondo è quel “trovarsi gettato nell’esperienza” che ci ha proposto Heidegger. Questo esser-ci è l’unica modalità reale di essere. Il che a sua volta vuol dire che conoscersi deriva dall’essere pienamente presente a ciò che emerge (di sé), e che a priori – prima cioè di soffermarsi nell’esperienza vitale – è in realtà inconoscibile.

— Felicità in azione

Nella pratica di coaching non resta molto spazio per riflessioni che si arrovellano intorno a quello che trovano nella mente, un “sedimento” in realtà anteriore alla consapevolezza di me, proveniente dalla programmazione della famiglia, della società e della cultura.

Per questo il primo obiettivo è rimuovere questo sedimento, perché, se la felicità avviene con la autorealizzazione, non c’è alternativa che cercare questo me che, attenzione, non è tanto “precedente alla programmazione” (1) quanto “al di là”.

Se l’Io è l’espressione del Sé attraverso l’esperienza – possiamo averne qualche scorcio solo nel suo svolgersi nel succedersi dei vari qui-ed-ora. «Dai loro  frutti li riconoscerete» (come si legge nel Vangelo di Matteo). Questi frutti sono gli stati di benessere (per non dire “di Grazia”) che seguono le nostre azioni e nei quali raggiungiamo un piacere nel corpo, gioia nell’animo, gratitudine nello spirito (2).

— Sapore di infinito

Come sa chi pratica la piena presenza, dimorando completamente nei qui-ed-ora apparentemente infiniti per numero ma in realtà limitati, ci arriva tuttavia una percezione di infinito: l’esperienza si dilata fino a diventare atemporale.

Ma esiste un esser-ci che non sia in relazione? La risposta ci appare ovvia ed è: no. Anche in solitudine, pensare non è attività astratta, ma dialogo tra parti interne nate e cresciute nel substrato culturale del proprio sistema familiare prima, civile poi e infine antropologico (altre relazioni).

— Come cambia il coaching

Nel post precedente suggerivo che autentico è ciò che favorisce un contatto totale, ovvero profondo e disinteressato, con sé e l’altro.

In primo luogo non esiste contatto che sia superficiale. Se contatto c’è, non può che avvenire sulle parti di sé più stabili e legate all’identità quindi quelle più intime. Restare in superficie non è che un modo abituale ed automatico di stare al mondo seguendo l’apprendimento (3).

In secondo luogo, il contatto autentico è disinteressato perché mette in gioco tutte le parti interne e le espone tutte. Non resta dunque che l’unica possibilità di perseguire una quanto più perfetta integrità ovvero lasciare che emergano dall’ombra “gli esclusi, gli esiliati e i reclusi” protetti dall’esercito dei protettori della personalità (per dirla à la Schwarz) e fare in modo che si uniscano alle parti consapevoli e in luce.

È un processo contemporaneamente a livello antropologico e intimo, in questi tempi in cui mi sembra che l’emergente umanità relazionale (v. Guzzi) non abbia più tempo per lasciare dei lati di sé nascosti all’altro.

— Il ruolo del femminile

Ogni sessione diventa sistemica e come tale analizza tutte le relazioni a tutti i livelli. Esamina l’esperienza e si lascia guidare dall’intuizione negli interstizi lasciati liberi da un raziocinio autoreferenziale e come tale autogiustificante. Da qui possiamo trarre la conclusione che il nostro metodo è femminile in quanto basato sull’accoglienza e l’intuizione.

Inoltre, nella esperienza ho constatato che l’esperienza vitale autentica, per quanto tutt’altro che elevata o pura o gradevole, si muove comunque a causa di motivazioni d’amore, anche se questo modo di amare è purtroppo per lo più appreso da cattivi maestri, che a loro volta lo hanno appreso da altri cattivi maestri (4). Questo focus sull’amore è certo anch’esso femminile.

Siamo certi di aver raggiunto l’autenticità proprio quando riconosciamo l’amore dietro i singoli schemi di comportamento anche disfunzionali. Quando capiamo in che modo abbiamo amato e siamo stati amati nelle tematiche della tragedicommedia della vita che portiamo al nostro coach, allora abbiamo trovato non solo la chiave ma la definitiva (per quel tema, se non altro…) pace interiore.

Esserci è donarsi

Se comprendiamo che esserci non è altro che stare autenticamente in contatto con me, con l’altro e con l’esperienza, come possiamo pensare di vivere pienamente se non dandoci interamente all’esperienza con l’altro ora?

Goditi profondamente 😉 questo video di Maya Angelou sul “dare tutto in ogni momento”.

Note:

(1) Non esiste il buon selvaggio di Rousseau. Qualcuno anzi ricorderà l’esperimento di Federico II che decise di far nutrire regolarmente un gruppo di neonati in assoluto silenzio in cerca della lingua primordiale: l’assenza di contatto verbale li condusse fatalmente alla morte (da Repubblica).

(2) Come sanno i partecipanti ai nostri corsi, ci basiamo sulla ipotesi di Fradin che le emozioni vere e proprie siano solo le negative, ovvero tristezza, rabbia e paura, che sono quelle che ci muovono (da cui l’etimologia della parola “emozione”). Quelle cosiddette positive (essenzialmente la gioia) sono invece stati d’animo di benessere che seguono e confermano il buon esito della nostra reazione.

(3)  Non tutto il familiare è necessariamente inautentico. Spesso la ribellione non è l’opposto dell’adattamento, ma proprio un modo appresso di relazionarsi che, continuando a mettere in priorità l’altro come modello negativo, finisce per sviare – e più subdolamente – dal contatto con sé. La domanda da far e farsi è “per non essere leale, non starai diventando sleale a te stesso/te stessa”?

(4) …forse proprio da quando la Spiritualità è stato messo da parte nella convinzione che solo nel maschile raziocinio risiede la verità?