I giudici interiori alla sbarra

Finirla con i giudizi

Al fondo e alla base della pratica del coaching – intesa tanto come professione che come esercizio – soggiace il “non giudizio”. Nessuno degli esperti di Programmazione Neurolinguistica, secondo i quali tutte le espressioni vanno sempre tradotte in positivo, è riuscito a proporre una locuzione non negativa in sostituzione di questa. Il che significherà qualcosa: il giudizio non è da sostituire, ma da eradicare.

Cosa resta tolto il giudizio

L’astrofisica e divulgatrice Giuliana Conforto ci propone l’ipotesi che la persona umana sia il linfocita T della Coscienza. I linfociti sono i precursori degli anticorpi: questo discernere il bene dal male sarebbe quindi niente meno che il ruolo pensato dal disegno divino per l’umanità. Il che sembrerebbe in contrasto con l’imperativo a non giudicare.

Igor Sibaldi, traduttore ed esegeta biblico, ha da parte sua proposto una rilettura del concetto di peccato. Non si tratta di violazioni a regole imposte, quanto piuttosto a equilibri che regolano l’essere nel mondo; non c’è nessun comandamento, ma una serie di (non meno imperative!) leggi analoghe a quelle della fisica e della chimica. La lussuria è un uso deleterio del corpo, la gola mancata presenza all’esperienza presente, la rabbia una chiusura alla ragione dell’altro, etc. Mi pare che ci riporti direttamente ai fondamenti della Gestalt e in definitiva è peccato tutto ciò che è contrario al contatto autentico con sé e l’altro.

Marco Guzzi citando Heidegger (in La Svolta) ci ricorda che «Perso nella pubblicità del Si e nelle sue chiacchiere, l’Esserci non ascolta più il proprio Sé, smarrito com’è nel dar retta al Si-stesso». Il giudizio diventa allora la voce del Si (si-deve-essere) prima di essere paradossalmente vagliato al setaccio del Giudizio con la maiuscola, ovvero la capacità della persona di decidere per sé ciò che è valido per il Sé. E, sempre per citare Guzzi, “conversione” non è altro che guardare dentro invece che fuori, ovvero riferirsi agli imperativi della cultura corrente (a dire, à la Wilber, rimanendo rinchiusi nelle bande biosociali del “politicamente corretto”).

Stiamo dunque distinguendo il bene dal male, non tanto attraverso le categorie degli imperativi di giusto e sbagliato, quanto alla luce della autenticità.

Che cosa è autentico?

Possiamo anche provare a dare una definizione, ma questo non ci apre che un minuscolo spiraglio su ciò che troveremo essendo il tema, e quindi il processo, del tutto personale.

Autentico è ciò che permette alla persona di accedere al proprio massimo potenziale. Ci rendiamo conto di essere autentici solo a posteriori quando sperimentiamo la connessione al Sé – invece che all’ego – e quindi siamo in uno stato di:

  • Calma
  • Coraggio
  • Fiducia
  • Curiosità
  • Compassione
  • Chiarezza
  • Creatività
  • Connessione (!)

(8 C del Self in Internal Family System di Richard Schwarz).

Non resta quindi che sperimentare e verificare affiancati da un coach o qualunque altra valida figura di “accompagnamento”. Questo affiancamento è necessario per potersi distaccare dalle convinzioni che consideriamo autentiche per il solo fatto di averci convissuto dall’infanzia…

L’unico consiglio che mi sento di dare qui è rimanere vigili ogni qual volta stiamo dando una connotazione negativa (ma, per i più raffinati, anche positiva…) a noi, all’altro e alle esperienze che facciamo.

La fine della guerra?

Dentro ciascuno di noi, si consuma in definitiva l’estrema frattura interna ed esterna tra amico (il giusto, il dover-essere) e nemico (lo sbagliato). Capiamo ora l’intuizione di Kubrick nella sua Odissea, in cui l’osso che arma la mano dell’ominide preistorico non è diverso dalla bomba atomica dell’homo sapiens sapiens. Non sono che varianti della stessa visione ego-centrica della realtà, incapace di relazioni autentiche.

Il 13 e 14 maggio a Napoli lavoriamo su questi temi attraverso la metafora dell’archetipo del guerriero. Qui trovi qualche informazioni su logistica e iscrizioni.